Autore: Giovanna Cosenza
Docente di Semiotica all’Università di Bologna
Anno: 2011/12

E per un’educazione ai media, capillare e trasversale, che cominci sin dall’elementari

La comunicazione di massa – dalla televisione alla pubblicità, dai videogiochi a un certo cinema e una certa letteratura – ci propone spesso immagini stereotipate e storie semplici, con l’idea che sia più facile per tutti capirle, apprezzarle e ricordarle. Naturalmente la cosiddetta «massa» apprezza anche storie e immagini più originali, se ben concepite, ma ripetere stereotipi è più facile e costa meno: dunque si fa.
Da tempo sociologi, psicologi e semiologi indagano il rapporto fra i media e ciò che di fatto le persone credono, desiderano, si aspettano nella vita. È chiaro infatti che fra media e società ci sono rimandi reciproci da cui è difficile districarsi, soprattutto se gli stereotipi che i media presentano toccano gli aspetti più intimi della nostra vita, su cui di solito c’è minore consapevolezza: la rappresentazione del corpo, le relazioni fra i generi sessuali, la vita affettiva. Se per esempio i media valorizzano le donne più per la bellezza che per ciò che dicono e sanno, mentre per gli uomini vale il contrario, non sarà che la differenza incide sul modo in cui le donne e gli uomini percepiscono sé e gli altri? Se i media presentano corpi (maschili e femminili) sempre più perfetti, fotoritoccati e lontani da quelli reali, non sarà che ciò influisce sul nostro ideale di bellezza? Sul modo in cui le bambine e i bambini crescono, sentendosi sempre meno adeguati rispetto a quei modelli? Sull’aumento dei disturbi alimentari e della domanda di chirurgia plastica? E se pubblicità e televisione mostrano più conflitti fra uomo e donna – la cosiddetta «guerra dei sessi» – che esempi di collaborazione e accettazione reciproca, non ci sarà un nesso con la difficoltà di costruire relazioni di coppia durature?
Secondo me sì: l’influenza che i media hanno su di noi è tanto forte quanto sottovalutata. Tipicamente, infatti, i professionisti dei media – ma anche molti studiosi – dicono che è banalizzante vedere le cose in questo modo: intanto perché le persone non sono così sciocche da farsi condizionare – infatti va di moda parlare di «consumatori maturi» o «postmoderni »; e poi perché i media non fanno che rispecchiare la società, non sono certo così potenti da costruirla o determinarla. È vero: i media non vanno demonizzati e sono anche una grande opportunità di alfabetizzazione; né si può ridurre la complessità umana a una visione deterministica, per cui certi problemi sarebbero «colpa» della tv o della pubblicità. Il punto, però, è che anche le persone più colte, razionali e «mature» convivono dalla metà del secolo scorso con stereotipi mediatici sorprendentemente immutabili nonostante i cambiamenti della società: mamme che preparano il pranzo o lavano il bagno, bambine che pettinano le bambole e sognano di fare la ballerina, superuomini instancabili, corpi oggetto. E non basta spegnere la tv, perché quelle immagini sono per strada, su internet, a scuola, nei supermercati.
E allora, come se ne esce? Credo che l’educazione ai media sia l’unica strada possibile: in tutti gli ordini e gradi della scuola – perché prima si interviene, meglio è – in tutti i settori dell’università. Un’educazione che oggi deve essere più capillare e trasversale di ieri, perché deve mostrare i nessi fra la televisione e internet, fra il cinema e i videogiochi, fra la pubblicità e una certa letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. E deve toccare gli aspetti più intimi e profondi su cui i media possono incidere: le relazioni fra i generi – sempre ricordando che non c’è solo l’eterosessualità, ma gli orientamenti sono diversi – il corpo, le emozioni, i ruoli di coppia. Perché sono queste le basi su cui gli individui crescono, scelgono amicizie e amori, formano famiglie, entrano in società.