Autore: Edoardo Boncinelli
Docente di Fondamenti Biologici della Conoscenza – facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
Anno: 2011/12

Un milione di miliardi di connessioni nervose. Impossibile siano tutte controllate dai nostri geni

La libertà ha tante facce. Potremmo dire addirittura che ne ha troppe, ma poiché sono uno scienziato, uno che ama andare a fondo delle cose, mi propongo di guardare ai fondamenti.
A differenza di altri, non ho dubbi sul fatto che siamo liberi, o perlomeno, facendone un dato quantitativo, abbastanza liberi. Non siamo né completamente liberi, né completamente vincolati, tuttavia ciò di cui non possiamo fare a meno, come essere umani, è gestire la nostra libertà. Siamo quindi, in un certo senso, incatenati alla libertà. Jean-Paul Sartre ha detto che siamo liberi nella scelta, ma non siamo liberi dalla scelta. Siamo obbligati in ogni istante a fare delle scelte più o meno importanti, più o meno biforcute, delle quali siamo responsabili. Ecco allora che, accanto al tema della libertà,
appare fin da principio il problema della responsabilità.
Ma, declinando la questione della libertà, accanto al concetto di responsabilità occorre assumere anche quello di caso. Il caso è il padre nobile della libertà. Non vi sarebbe libertà, se tutto fosse determinato, ovvero se non vi fosse caso. Gli animali inferiori – le formiche, le api, per esempio, alla cui organizzazione qualcuno potrebbe guardare con un certo interesse – sanno sempre cosa fare; man mano che si sale nella scala evolutiva e si giunge ai carnivori superiori, alle scimmie, si trova un po’ più di libertà, ma la maggior parte delle scelte continuano a essere dettate dell’istinto.
La nostra libertà è il vuoto lasciato dalla determinazione precisa e puntuale di varie leggi di natura, che siano fisiche, biologiche o chimiche. Chi parla male del caso – ovvero quasi tutti – dovrebbe riflettere sul fatto che, se il mondo fosse tutto perfettamente determinato, non ci sarebbe libertà; non ci sarebbe neppure la possibilità della libertà. Il buco nel quale si muove la libertà, è il caso. Il volante, il manubrio, la manopola per orientarsi nel caso, è quella che noi chiamiamo volontà; tuttavia, quasi in ogni circostanza, la volontà può qualcosa, ma non può tutto.

Il determinismo genetico lo si toglie presto di mezzo. Da biologo, non posso pensare che la complessità – o complicazione, o ricchezza – del mio sistema nervoso centrale, per non parlare del resto del corpo, sia determinata dai miei geni. Non ci sono i numeri. Basti pensare che il mio cervello, il mio sistema nervoso centrale, è un’architettura complessiva di un milione di miliardi di connessioni nervose. Il cervello contiene, grosso modo, cento miliardi di cellule nervose, e cento miliardi è un numero piuttosto rispettabile – cento miliardi sono le stelle della galassia, cento miliardi sono probabilmente le galassie esistenti
nell’universo – ma ancora più impressionante è il numero delle connessioni. Le cellule nervose si toccano reciprocamente con una media di diecimila contatti che chiamiamo sinapsi, o bottoni sinaptici. Se si moltiplica cento miliardi per diecimila, risulta un milione di miliardi. La maggior parte dei neurobiologi, me incluso, ritiene che quello che io sono in questo momento è il risultato della configurazione complessiva di questo milione di miliardi di connessioni. Quanti geni abbiamo, invece? Trentamila. È concepibile che trentamila geni controllino, istante per istante, il milione di miliardi di connessioni del mio sistema nervoso? In nessun modo.
Il determinismo genetico, insomma, non può esistere. Ci si potrebbe tuttavia porre un’altra domanda: che cosa determina il milione di miliardi di connessioni che avvengono in me, e che sono un po’ diverse da ieri, e probabilmente saranno un po’ diverse da domani? Se non sono i geni, di che cosa si tratta? Da almeno trent’anni, i neurobiologi dicono che sono tre
le fonti della determinazione delle nostre sinapsi, ovvero del nostro essere interiore: i geni, la nostra stessa vita, e il caso.
I geni sono in parte responsabili, perché se ho un gene leso o non funzionante, probabilmente non si produce una certa particolare sostanza; e in ogni caso avrò il cervello di un essere umano, con i circuiti di un essere umano, con le cellule di un essere umano. Una componente genetica certamente c’è, così come c’è una componente che possiamo chiamare esperienziale, o ambientale, o biografica. I miei geni hanno stabilito, per esempio, che potevo imparare un linguaggio, ma non era scritto quale linguaggio avrei imparato. Sono cresciuto in Italia e ho imparato l’italiano. Fossi cresciuto in Giappone, probabilmente avrei imparato il giapponese. È probabile che nei miei geni ci fosse scritto che, se tutto fosse andato bene, avrei incontrato una donna, ma sicuramente non c’era scritto che donna sarebbe stata: se bionda, se bruna, se alta, se bassa, con quale grado di istruzione. Come potevano sapere, i miei geni, chi avrei sposato? Tutte queste cose derivano dalla mia vita, dalla componente ambientale, che però deve essere vista nella sua interezza: che cosa ho mangiato, che malattie ho avuto, che persone ho incontrato e, solo successivamente, che istruzione ho avuto. Io sono figlio dei miei geni, che non sono identici a quelli di nessun altro, ma sono anche figlio della mia storia.
I due partiti – quello per cui sono più importanti i geni e quello per cui è più importante la storia personale – si sono scontrati per decenni, studiando soprattutto i gemelli, quelli allevati insieme e quelli allevati separatamente. Fatto sta che, qualsiasi percentuale si dia – un tanto per cento ai geni, un tanto per cento all’ambiente – il tasso umano complessivo non dà mai il cento per cento. Manca sempre qualcosa. I neurobiologi hanno a lungo ritenuto che la parte mancante, stimata in un due o tre per cento, fosse da ascrivere al caso. Cosa vuol dire, il caso? Vuol dire che, in un certo momento della mia vita, anche ieri, un contatto può andare a sinistra o può andare a destra. Se c’è una ragione forte perché vada a sinistra o a destra, bene, accadrà così; se non c’è una ragione forte, siccome comunque deve andare da qualche parte, andrà a caso. Le misurazioni degli ultimi trent’anni ci hanno mostrato che questa componente casuale è molto più elevata di quel due o tre per cento stimato inizialmente. È, grosso modo, una terza parte. Un terzo del nostro comportamento, del nostro essere al mondo o, se vogliamo, del nostro destino, è ascrivibile ai geni, un terzo all’ambiente, e un terzo al caso. Proviamo a pensare all’azione del caso nella microanatomia del cervello. Se si confrontano le radiografie di diversi cervelli umani, si vede che non ve ne sono due uguali tra di loro, e che sono anzi presenti grossolane differenze. Questa evidenza si può attribuire al fatto che l’uomo è un animale complicato. Prendiamo allora due gamberetti di mare, geneticamente identici, che hanno vissuto tre o quattro giorni nel medesimo ambiente. I loro ridottissimi cervellini sono diversi, e la microanatomia del loro sistema nervoso è diversa, benché non abbiano avuto granché da scegliere se andare in discoteca, a teatro o a sentire una conferenza. Che dobbiamo pensare? Hanno gli stessi geni, l’ambiente è lo stesso; c’è dunque una componente puramente casuale che ha inciso sulla loro struttura nervosa. A maggior ragione, la componente casuale inciderà sulla nostra. Abbiamo il cervello costruito sulla base di tre informazioni individualizzanti. Che siamo tutti uno diverso dall’altro, per altro, ci è noto. Così come ci è noto che la vita è bizzarra. Da una famiglia modesta da generazioni può nascere un personaggio straordinario, e da una famiglia eccellente da generazioni può nascere un personaggio del tutto mediocre. Insomma, è impossibile determinare a priori le connessioni nervose nella loro interezza, e in questo risiede la morte del determinismo genetico. Allora, quanto siamo liberi? Siamo più liberi di un cane, che è più libero di un topolino, che è più libero di un lombrico. Perché? Sostanzialmente perché la complessità, o ricchezza, o complicazione del sistema nervoso di questi animali è molto diversa. Un cane è un milione di volte meno complicato di me; un topolino è un miliardo di volte meno complicato di me; un verme è infinitamente meno complicato ancora. È quindi probabile che, via via che si scende nella scala evolutiva fino all’ameba, i geni siano sempre più importanti. Anche se mai al cento per cento, perché anche l’ameba, quando decide per esempio di andare verso la luce, ci può andare velocemente o ci può andare piano, dimostrandoci che c’è una piccola componente di libertà anche nelle cellule più elementari. Naturalmente, la complicazione che ci contraddistingue è enormemente superiore a quella di un cane. Come si può misurare, questa differenza? A seconda del numero di risposte possibili allo stesso stimolo. Se si dà un calcio a un cane, il cane avrà quattro, cinque, sei risposte diverse. Se si dà un calcio, o uno schiaffo, a un essere umano, è capace che quello si metta a cantare una canzone dei Beatles. È capace che ti dica: dammene un altro. È capace che ti offra l’altra guancia. È capace che cominci a pregare per la tua salvezza. La quantità di scelte aumenta con la complicazione del sistema nervoso centrale.