Autore: Roberta Paltrinieri
Professoressa associata presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna dove insegna sociologia e sociologia dei consumi.
Anno: 2012/13

La crisi che stiamo vivendo non è esclusivamente una crisi economica, è una crisi sistemica perché richiama in campo una molteplicità di dimensioni: la dimensione sociale, la dimensione culturale, quella ambientale, solo per citare le principali. In ragione di questa complessità da più parti ci si interroga se questa crisi non possa essere anche un’occasione per ripensare alla visione del mondo che finora ha sostenuto l’organizzazione delle società in cui viviamo: “il mito della crescita economica illimitata”. Mito, quest’ultimo, che è andato di pari passo con la crescita esponenziale della società dei consumi. La società capitalistica e la società consumistica sono, infatti, le due facce dello stesso fenomeno.
Il linguaggio dei consumi – insieme ai suoi strumenti, la pubblicità, il marketing, la marca – è probabilmente il principale linguaggio sociale non verbale attraverso il quale comunichiamo.
Attraverso di esso esprimiamo l’appartenenza a un gruppo, a una classe sociale, a una comunità. Il consumo rafforza dunque la nostra identità, ma al contempo produce differenza, competizione, senso di inadeguatezza, frustrazione. Per capire appieno le dinamiche che il consumo attiva non va dimenticato che il motore della società dei consumi è la logica dell’edonismo, ovvero la ricerca del piacere, e non il bisogno, come per lungo tempo ci hanno raccontato gli economisti.
L’edonismo come motivazione delle nostre scelte quotidiane di acquisto fa sì che la ricerca
della felicità, attraverso beni materiali, sia la meta sociale condivisa dalla maggior parte delle persone. L’obiettivo sociale primario, nelle società fondate sul mito della crescita illimitata, è perciò quello di alimentare il desiderio, in questo i media e la pubblicità sono strumenti molto efficaci. Poiché però esistono dei limiti fisici, economici, simbolici, etc., il continuo confronto con promesse di felicità irrealizzabili alimenta solo le frustrazioni ed il consumo pressoché incessante di beni. Così spieghiamo fenomeni che sono così diffusi nelle giovani generazioni come il consumo compulsivo, il neg factor, le shopping generation, per non parlare delle diverse dipendenze da sostanze stupefacenti, alcol, tecnologia, bullismo e cyberbullismo. Osservata da questo punto di vista la società dei consumi o del benessere materiale non è però la società della felicità. Osservano Wilkinson e Pickett: “Gli indicatori del benessere e della felicità non crescono più di pari passo con il reddito nazionale, anzi, all’aumentare della ricchezza materiale, le società opulente hanno visto aumentare l’incidenza di ansia, depressione e numerosi altri problemi sociali. Le popolazioni dei paesi sviluppati sono giunte al termine di un lungo percorso storico”. (Wilkinson R., Pickett K., (2009), La misura dell’anima, Feltrinelli, Milano, p. 20). È necessario, dunque, ripensare ad un nuovo modello economico e culturale che faccia i conti con nuove accezioni di prosperità, di consumo, di felicità e che promuova uno sviluppo sostenibile, declinato nelle diverse accezioni economica, ambientale, culturale, sociale e istituzionale. Un nuovo modello che ridefinisca il ruolo e le funzioni che hanno la scuola, la politica, lo Stato, la società civile, le imprese, i cittadini capace di generare e rigenerare veri e propri patti di cittadinanza. Dal mio punto di vista una possibile alternativa alla crisi è rappresentata dalla “cultura della responsabilità sociale”, frutto di processi di “reciproca responsabilità”, intesa come responsabilità individuale di ognuno indirizzata al raggiungimento del bene comune, in base alle proprie competenze nonché ai propri limiti. Questa cultura della responsabilità fonda il paradigma delle responsabilità sociali condivise
e si attiva concretamente nella creazione di circoli virtuosi della responsabilità: partnership tra pubblica, privato, privato sociale e cittadini, nella prospettiva della sussidiarietà orizzontale richiamata dalla nostra costituzione all’articolo 118.
La proposta che avanzo in questa sede è quella di ripartire dai circoli virtuosi della responsabilità per fondare, culturalmente e pragmaticamente, un nuovo modello di consumi non più orientato al consumismo sfrenato, bensì al “consumerismo socialmente responsabile” inteso come vera e propria pratica di cittadinanza attiva o partecipazione civica.
Le forme del consumerismo socialmente responsabile sono molteplici: dal consumo critico che si esprime nel boicottaggio e nel buycottaggio, al consumo dei prodotti del circuito dell’equo solidale, dal consumo del biologico, al consumo a Km Zero, fino al costituirsi dei G.a.s, (Gruppi di acquisti solidali), dagli investimenti in energie alla finanza etica, dagli stili di vita sobri tendenti alla riduzione dello spreco (riuso, riutilizzo, recupero) agli stili di vita sostenibili ed ecocompatibili. È inutile nascondere il fatto che, a tutt’oggi, questo consumerismo socialmente responsabile riguarda solamente una nicchia della popolazione italiana, un gruppo ristretto di persone dotate, per lo più, di un’elevata istruzione e di una rete solida di relazioni sociali.
La scommessa che si può proporre è quella di allargare la nicchia perché non sia più tale, ed allargandosi evolva verso veri e propri percorsi di partecipazione civica attraverso l’area del consumo. Perché ciò non rimanga solo un impegno sulla carta occorre agire su diversi livelli, oltre quello delle buone pratiche quotidiane, mi riferisco al livello strutturale e al livello culturale. I comportamenti sociali sono, infatti, influenzati dalle istituzioni e dai valori, cercare di mutare i comportamenti delle persone senza mutare gli orientamenti valoriali e le politiche è uno sforzo quasi inutile. Tim Jackson a tal proposito scrive: “Ci sono innumerevoli esempi di come la struttura prevalente possa avere effetti deleteri: il trasporto privato è incoraggiato rispetto a quello pubblico, le auto hanno priorità sui pedoni, i fornitori di energia sono protetti e godono di sussidi mentre spesso la domanda è gestita in modo caotico e costoso, gettare via i rifiuti costa poco in termini di denaro e impegno mentre il riciclaggio richiede tempo e qualche sforzo” (Jackson T., Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente, Città di Castello, 2011, p. 193). Il ruolo dei circoli virtuosi è perciò quello di produrre mutamento, affinché le buone pratiche non rimangano relegate alla sola nicchia, mediando dall’alto verso il basso, dalle istituzioni ai singoli e dal basso verso l’alto, dalla società civile verso le istituzioni. In questo quadro la scuola è, per definizione, lo spazio nel quale giocare la scommessa sul futuro. Essa ha, infatti, un ruolo fondamentale, in quanto agenzia di socializzazione si occupa della formazione dei cittadini del domani, per questo essa appare un “agente del cambiamento” da cui non poter prescindere.
È da questo punto di vista che sento di poter sostenere che un’educazione al “consumerismo socialmente responsabile” rivolta alle nuove generazioni rappresenta oggi un tassello importante nei percorsi formativi, è una modalità innovativa per tessere un patto intergenerazionale, perché lo sviluppo sostenibile, prima richiamato, ha come obiettivo temporale le generazioni future. Il modello economico finora dominante ha avuto un idealtipo preciso di riferimento: l’homo oeconomicus.
Il nuovo modello deve partire da un diverso tipo ideale: l’homo civicus, che è colui che partecipa alla cosa pubblica, che trascende il confine della propria sfera individuale, della migliore vita per sé in termini di benessere materiale ed è l’espressione di una cittadinanza attiva fondata su interessi comuni e la preservazione del bene collettivo. È il cittadino consumatore, che trova nelle scelte di acquisto, o non acquisto, una modalità per partecipare attivamente alla costruzione di un modello migliore di società. In questo progetto, proiettato al futuro, il ruolo della scuola è quello di promuovere knowledgeability, cioè capacità culturale. Creare capacità culturale significa permettere alle nuove generazioni di “scegliere”, di entrare in contatto pragmaticamente con le forme del consumerismo socialmente responsabile e allo stesso tempo di essere aperte alle conoscenze, di diventare capaci di formulare giudizi, di esprimere un’opinione, divenire cioè consapevoli che un consumo ed un uso sostenibile dei beni può essere la premessa a una migliore qualità della vita, quella misurata dalla salute, dalla amicizia, dal senso di comunità. Ovviamente perché questo ruolo della scuola possa compiersi ed incidere a livello delle strutture essa necessita della sinergia e del complemento degli altri attori che insieme alla scuola agiscono nelle comunità: dalle famiglie alle associazioni, dalle istituzioni locali alle imprese che virtuosamente attivano percorsi di responsabilità sociale di impresa.
È, infatti, solo attraverso la cooperazione a la coprogettazione che questa sfida per un futuro migliore può trovare una propria realizzazione.